Stati Uniti, Russia, UE. Il vertice di Sharm El Sheikh chiude tutto cercando di porre la proverbiale pezza al disastro di impotenza e negligenza sfoderato dalla politica estera occidentale in occasione dell'operazione "Piombo fuso". Così come i recenti interventi di Frattini e Kouchner, riguardo alla stabilizzazione dei rapporti siro-libanesi e la nuova legge elettorale con cui si andrà a votare a giugno nel paese dei cedri, anche qui si tratta di un'operazione di retorica diplomatica prevalentemente rivolta all'opinione pubblica occidentale. La politica della "caramellina".
Dietro il summit di Sharm si continua a perpetuare l'esclusione politica di Hamas, attore imprescindibile per una stabilizzazione e normalizzazione a livello regionale e non solo. Tanto più che l'esclusione è pragmaticamente esplicita e sfacciata: di 900 milioni di dollari stanziati dagli Usa per la ricostruzione, solo 300 andranno direttamente per la gestione dell'emergenza umanitaria a Gaza, mentre il rimanente sarà devoluto all'Anp (Fath). Insomma una grande bombola d'ossigeno per "Mahmud il moderato", leader di un partito vessato da gravi difficoltà economiche, oltrechè inviso a molti palestinesi in seguito all'accondiscendenza dimostrata all'avvio delle operazioni militari a Gaza (peraltro occasione in cui centinaia di esponenti di Hamas in Cisgiordania sono stati arrestati, alcuni spariti nel nulla; la caccia all'islamista è avvenuta d'intesa con le Forze armate israeliane e sotto la supervisione della CIA). Sullo sfondo, una molto remota possibilità di ritorno da parte di Fath nella striscia di Gaza, dove fu espulsa da Hamas il 15 giugno 2007 in seguito ad un escalation di ritorsioni da parte dei due gruppi.
La sensazione è quella di aver prodotto ancora una volta uno sbilanciamento degli equilibri di potere, spingendo per Fath e per la divisione, saltando a piè pari il popolo palestinese, che si sarebbe dovuto esprimere in Cisgiordania per il rinnovo del mandato elettorale di Abu Mazen (scaduto il 9 gennaio). Un processo elettorale privo di turbative avrebbe probabilmente condotto i due tronconi del mondo palestinese, Gaza e West-Bank, a unificarsi sotto l'egida di Hamas. Le elezioni ora sono state rinviate di un anno. E nel frattempo si continua a trattare con la leadership de facto anzichè con quella de jure. Non la si può certo definire una mediazione disinteressata. «Perchè», chiede Yusif, dirigente di Hamas, «l'America e l'Europa, anche se con accentuazioni diverse al suo interno, continuano a vincolare il riconoscimento di un governo (palestinese) scaturito da libere elezioni, al riconoscimento da parte nostra di Israele? E' una pregiudiziale e non un elemento di negoziato. Ma nessuno chiede a Israele come pregiudiziale per mantenere le relazioni il riconoscimento della Palestina come stato indipendente». Tanto più che, come lo storico Dan Diner spiega, «i destini incrociati dei due popoli sono segnati dalla "dialettica del non-riconoscimento" reciproco: quando un ebreo dice "Israele" o un arabo palestinese "Palestina", pensa lo stesso spazio. Sicchè la retorica dei due Stati naufraga sempre e continuamente sulle cataratte della realtà» [Dialektik der Nichtanerkennung]. E su questo fronte Hamas è vincente, proprio perchè «ci si sente traditi dagli stessi "fratelli arabi" (Fath) che usano la causa palestinese per i loro giochi di potere», come spiega anche Sari Nusayba, rettore dell'Università al-Quds di Gerusalemme Est.
Israele insiste nel vedere in Fath l'unico interlocutore possibile; una posizione che significa inevitabilmente non voler guardare il problema, mantenere i rapporti di forza e status quo. Non esiste alcuna prospettiva, se non quella della pulizia etnica. "Etnia e sicurezza". Specie da quando, morto Arafat, Israele ha trasformato il regime di Abu Mazen in un protettorato: Chomsky senza mezzi termini parla di Fath come "polizia israeliana nella West-Bank". Mentre Gaza è semplicemente una gabbia sovrapopolata. Per dirla come Moshe Yaalon nel 2002, l'allora capo di Stato maggiore delle Forze armate israeliane: «Ai palestinesi dev'essere fatto capire nei recessi profondi della loro coscienza che sono un popolo sconfitto».
Hamas e Fath si incontreranno ora per una serie di tavoli di confronto. «E' da escludere», fa notare l'analista giordano Ahmad Gamil 'Azm, «che nell'era della contrapposizione tra fazioni, nel contesto di un sostanziale equilibrio di forze, in presenza di potenze mondiali e regionali che non hanno interesse a sostenere la riconciliazione, e alla luce degli attuali conflitti e delle rese dei conti per impadronirsi del potere, vi sia un clima favorevole alla riconciliazione. I palestinesi si trovano di fronte a due movimenti di punta del loro panorama politico, di cui il primo, Fath, sta vivendo le fasi finali della sua vita politica, essendosi dimostrato incapace di rinnovarsi, e il secondo - Hamas - vive una fase di declino caratterizzato da incertezze ideologiche, politiche e militari».
Da Sharm si esce così, con il sorriso tipico della diplomazia occidentale che salva capre e cavoli, una colletta grande stile per Fath, e una pacca a Israele, la testa di ponte per i suoi interessi medio-orientali. La speranza è che dietro alla Clinton, che come ha fatto notare a suo tempo il Washington Post, per le posizioni da sempre espresse è la più filoisraeliana tra tutte le candidature prese in considerazione da Obama, si stia lavorando dietro le quinte in un'operazione di profilo segreto o a basso livello anche con Hamas, consapevoli che un ostracismo nei suoi confronti sarebbe controproducente. In primo luogo per gli interessi stessi di Israle, che si potrebbe veder sfuggire di mano la situazione anche nella West-Bank. Il totale isolamento di Hamas optato da Bush, potrebbe dunque finire in luogo di una nuova strategia di divisione interna di Hamas, puntando in particolare sul cosidetto "partito degli americani" (i dirigenti del partito islamico formatisi negli Stati Uniti), isolando l'ala militarista.
In ogni caso il leitmotiv è costituito dal mantenimento dell'asimmetria Israele-Palestina, di gestione della dominanza dei primi rispetto ai secondi. Si continua a tacere sul continuo avanzamento insediativo israeliano in Cisgiordania, il progetto E1, che creerebbe continuità di popolazione ebraica tra gli insediamenti costruiti da Israele per connettere l'area annessa a Gerusalemme nel 1967 a quella di Ma'ale Adumim, nonostante questo violi apertamente la quarta Convenzione di Ginevra: «La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato». Si tratta di nuove case per 300 mila nuovi coloni, come ha denunciato ieri il movimento israeliano Peace Now, che accentua il frastagliamento cisgiordano spingendo ancora più a est il passaggio nord-sud palestinese. Una difficoltà in più per realizzare uno stato palestinese. A questo si aggiungono i 630 posti di blocco, alcuni fissi ed altri mobili, disseminati qua e là (fonte ONU). Parte delle aree sono interdette all'accesso dei palestinesi, e in altre si richiede un permesso speciale. Israele vieta ai palestinesi l'uso di 200 km di strade principali, riservate agli israeliani. E Gaza, beh, è Gaza.
Del vertice di Sharm-el-Sheikh, i palestinesi avranno letto, e sorriso. Se ancora ci riescono.
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