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giovedì 14 maggio 2009

referendum elettorale e bipartitismo



I tre quesiti abrogativi pendenti sulla legge elettorale Calderoli/Porcellum sui quali gli elettori saranno chiamati a votare il 21 giugno riguardano: 1) l'abrogazione alla Camera; 2) e al Senato della possibilità di collegamento tra liste, così da consentire l'attribuzione del premio di maggioranza alla lista che raccoglie il maggior numero di voti e non più alla coalizione; 3) il divieto di candidarsi in più circoscrizioni elettorali. (TESTO)

La risultante di un eventuale esito positivo delle abrogazioni in salsa simil-maggioritaria, senza dover andare a pescare le leggi di Duverger, sarebbe una forte incentivazione al bipartitismo. Ma ci sono ragioni per pensare che sia un progetto prima culturale e poi politico. Levatisi il fardello delle coalizioni le liste maggiori saranno spinte ad inglobare le forze politiche secondarie (almeno quelle che avranno ambizioni governative) per raggiungere un tetto di voti pari alla maggioranza relativa. Se con le coalizioni però le identità rimanevano almeno visibilmente distinte, la sindrome da Partito-Democratico porterà nel breve-medio termine all'omologazione delle proposte politiche. Il grande progetto di Berlusconi di lasciare in eredità all'Italia un sistema bipartitico stile USA. Progetto in cui si è inserito il Pd sperando di cannibalizzare la scena a sinistra senza tuttavia avere i numeri per arrivare al premio di maggioranza salvo stravolgimenti tra Lega e Pdl dall'altra parte. Un piano già fallito in partenza, una cieca corsa al potere che si strafotte l'Italia. Non a caso l'unica spiegazione al "Sì" data dal segretario del Pd è stata che "bisognava saper rischiare". Appunto, alla cieca.

Se l'operazione fosse meramente politica e il Pdl avesse voluto liquidare la Lega e studiare un sistema che gli avrebbe consentito di governare da solo, avrebbe potuto tergiversare aspettando fine legislatura per accordarsi con il Pd su un sistema a doppio turno. Il Pd da parte sua avrebbe potuto correre per le elezioni aspettando al secondo turno il voto tattico degli elettori alla sua sinistra e alla sua destra. Il monoturno al contrario richiede aggregazione e assimilazione: un giro di vite sulle proposte politiche ed un azzeramento di alternativa. Esempio: quanti elettori Ds avrebbero dieci anni fa immaginato di andare a votare un partito che in campagna elettorale si presenta con manifesti che recitano «Più sicuri. Eccome. Con più agenti sul territorio»? Inoltre, e non secondario, il costruendo bipartitismo aggrava il livello di personalizzazione della politica, processo già innescato dalla riforma elettorale del 1993 (Mattarellum), o meglio «la logica bipolare della competizione elettorale, con il corollario della sostanziale investitura del Presidente del Consiglio, tipica delle cosiddette "democrazie immediate"» (Bin, Pitruzzella).

Il referendum è stato propagandato come mezzo per correggere un sistema elettorale sminchiato. Bene. In che modo? Lasciando tutto così com'è: liste bloccate, proporzionale, soglie di sbarramento innalzate dal 2 al 4% sul piano nazionale alla Camera e dal 3% all'8% sul piano regionale al Senato, come logica conseguenza dell'abolizione delle coalizioni e le "agevolazioni" che beneficiavano le liste appartenenti a queste. A cui si aggiunge il premio di maggioranza alla lista che raccoglie più voti. Unico elemento di rottura è rappresentato dal terzo quesito, già definito da qualcuno come "foglia di fico" del pacchetto referendario; in questo caso il "Sì" riguarderebbe l'eliminazione della possibilità che un candidato si presenti in più circoscrizioni sia alla Camera che al Senato, pratica che consentiva a giochi fatti di scegliersi una circoscrizione lasciando che nell'altra venisse ripescato un altro candidato, più gradito rispetto a quello che sarebbe stato ripescato nella circoscrizione scelta. «Un esempio macroscopico di cooptazione».


I monocolori-Berlusconi non sono ancora finiti. O forse, addirittura, non sono ancora arrivati. Il bipartitismo non c'è ancora, ma il partito unico, quello si muove. Per i suoi costituenti basta sfogliare i nomi del comitato promotore del referendum.



lunedì 6 aprile 2009

middle east: esiste un dopo Iraq?



L'accordo di fine anno, il SOFA, mette nero su bianco le date del ritiro americano in Iraq, e ciò che ci girerà attorno. Questo Status of Forces Agreement è una delle prove più tangibili del fallimento totale della campagna militare lanciata nel 2001 da G.W.Bush. Non per il ritiro delle truppe, sia chiaro, ma per la risoluzione ufficiale del conflitto. Che sembra suggerire un ribaltamento di potere tra chi dovrebbe aver vinto la guerra a dispetto dell'altro (situazione in cui vengono imposte le condizioni del vincitore). Come a dire che, fa notare Fabio Mini in "Uno scomodo Sofa", «visto che il regime di Saddam non c'è più, l'Iraq vuole lo stesso trattamento di cui godeva quando c'era "lui": pretesa legittima anche se imbarazzante nel riferimento». Gli articoli dell'accordo rispecchiano questo leit-motiv, alcuni di questi scritti con toni addirittura perentori o da intimidazione incondizionata. Un documento contenente richieste che sarebbero dovute essere definite, nella forma e nella sostanza, come irricevibili da parte della diplomazia del vincitore.

Prendiamo l'articolo 24, riguarda la forma: «All U.S. forces are to withdraw from all Iraqi territory, water and airspace no later than the 31st of December of 2011. All U.S. combat forces are to withdraw from Iraqi cities, villages, and towns not later than the date that Iraqi forces assume complete responsibility of security in any Iraqi province. The withdrawal of U.S. forces from the above-mentioned places is on a date no later than the 30 June 2009. The United States admits to the sovereign right of the Iraqi government to demand the departure of the U.S. forces from Iraq at anytime. The Iraqi government admits to the sovereign right of the United States to withdraw U.S. forces from Iraq at anytime». Il tono di incondizionalità è sancito con un bel "gong" per mezzo delle due date. Che azzerano la possibilità di cambiamenti in corso. E ciò nonostante le ipotesi di deterrenza delle minacce alla sicurezza irachena (art. 27) che però "vengono riferite esclusivamente alla sopravvivenza politica dell'attuale regime". Si aggiungono infine le ultime due gemme: gli Stati Uniti possono decidere di andarsene in qualsiasi momento oppure, riconoscendo il diritto sovrano dell'Iraq, farsi cacciare via anche domani, se nelle intenzioni di Baghdad. L'articolo 26 è invece un esempio di richieste sostanziali: «In order to enable Iraq to continue developing its national economy by rehabilitating the Iraqi economic infrastructures and also to provide the basic vital services for the Iraqi people and to continue to preserve Iraqi resources such as petroleum, gas and other resources and also to preserve its financial and economic assets abroad, including the Development Fund of Iraq, the United States of America guarantees its best effort in order to: - Support Iraq to cancel its international debts that resulted from the policy of the former regime; - Support Iraq to reach a final and comprehensive decision regarding the demands of compensation that Iraq inherited from the former regime that have not been resolved yet, including the demands of compensation that was imposed on Iraq by the International Security Council».

Il SOFA, ora che il mandato ONU è scaduto e non rinnovato, è l'unico punto di riferimento. Eluderlo, significherebbe violare il diritto internazionale, o comunque, giocare sporco. Ma parecchio sporco. Resta allora da chiarire perchè il SOFA è stato scritto così come è stato scritto. La risposta è tutta qui: l'Iraq si è reso fin troppo bene conto della situazione balbettante degli Stati Uniti, contingente e non. Ed è riuscito a prendere il coltello dalla parte del manico: farsi delegare nei compiti interni e farsi rafforzare il governo centrale, «tendendo la trappola dell'inaffidabilità e dell'inadempienza dei forti», consci del fatto di essere un argomento da spendere nel dibattito interno agli Stati Uniti. Un ricattino efficace, in fondo, interessi economici messi al sicuro, Washington non ha più motivi per occuparsi dell'Iraq. Perchè mai continuare ad assumersi la responsabilità, o rischiare di contare altri morti? La "democrazia" è già stata esportata. Tanto più che i modelli di occupazione di derivazione "seconda guerra mondiale" non sono più applicabili nel bel mezzo di un'insurrezione armata. Non si può pensare di dividere per controllare, quando il problema è l'opposto: gli interlocutori sono già molteplici, la rete del potere informale (diwan) vasta: si pensi al ruolo delle tribù sparse nel territorio, che si sostituiscono ai poteri istituzionali. Persino a cavallo dei confini, luoghi in cui il potere centrale dovrebbe avere tutto l'interesse di vigilare e rimarcare aggressivamente come "suoi", anche in virtù della funzione simbolica che assumono.

I contingenti militari americani confluiranno pertanto in Afghanistan. E questo mi porta al secondo punto. Come può essere conciliabile il fallimento iracheno, cui ha certamente contribuito la vecchia amministrazione Bush nella decisione di coprire le «inadeguatezze politiche e militari», stando sempre a Fabio Mini, «facendo finta che si potesse risolvere il problema con qualche migliaio di soldati in più», con il nuovo rimpolpamento che si prospetta per l'Afghanistan? Vedasi adunata generale di Obama: «L'Europa non si può aspettare che gli Stati Uniti sostengano da soli peso militare in Afghanistan perché siamo lì per affrontare un problema comune». Il pretesto è fornito dalla "turbolenta" regione di frontiera con il Pakistan. Sembra la riapplicazione del modello morto e sepolto giusto ieri in Iraq. Sfidare sul proprio terreno gruppi di potere locale, rischiare una guerriglia non controllabile, e magari bollare il tutto al nome "al-Qaeda". Ma come, giusto 17 giorni fa hai mandato bacini a Tehran (messaggio nel giorno di "Nowruz": «just one part of your great and celebrated culture») lanciando, di fatto, un negoziato diplomatico che aspetta solo le elezioni di giugno per entrare nel vivo, e ora ritorni massicciamente in Afghanistan? Pur sapendo che le perdite del 2008 sono aumentate del 21% rispetto a quelle dell'anno precedente. Pur avendo dall'Iraq così tanto da imparare. Pur consci della necessità di una nuova politica per il medio oriente: vedasi appunto little o grand bargain con l'Iran.

E' una politica estera che continua ad essere molto ambigua. L'unico punto che appare chiaro è come non esista una linea guida comune, e che si proceda per scelte diversificate, caso per caso. E' possibile che il "paradosso del vincitore" vistosi in Iraq possa aver indotto gli Stati Uniti ad una scelta più aggressiva ed energica per l'Afghanistan, in modo da avere più peso diplomatico al momento giusto. Ossia senza uscire gradualmente dagli affari di ordine interno prima dell'atto conclusivo (maggiore ricattabilità?). Tuttavia questo scenario potrebbe destabilizzare ulteriormente una regione in cui il livello di caos è già alle soglie di guardia. Inoltre, in prospettiva, potrebbe logorare la credibilità degli USA esattamente come accaduto in Iraq. Questa serie di ragioni fa pensare che la scelta di rafforzare numericamente i contingenti sottenda logiche estranee, di per sé, al controllo della tribulata regione afghano-pakistana. A meno che non si voglia adottare il punto di vista neocon, non solo come pretesto, per cui Al-Qaeda è il male di questo mondo, e, in quanto tale, vada debellato militarmente parlando. Aggiungendo, peraltro, un altro significativo tassello alla sua mitizzazione nonché rafforzamento: leggi alla voce "cos'era al-Qaeda prima dell'11 settembre".

Più verosimilmente, nelle dichiarazioni di Obama credo vadano lette almeno tre intenzioni. La prima è quella di rafforzare il presidio medio-orientale nell'unico posto dove questo è ancora possibile e di libero arbitrio per gli USA. In parte alimentato dal necessario turn-over che si prospetta in seguito al SOFA, o graduale sgombero dall'Iraq, in parte dettato dall'esigenza vecchio-stile di ricordare a tutti che gli Stati Uniti sono ancora "affidabili". Che richiama tristemente il ruolo giocato negli ultimi anni dall'improbabile attore internazionale Italia: non importa il come, il quando, e neppure il cosa; l'importante è esserci. Il secondo motivo potrebbe avere a che fare con gli equilibri internazionali messi in discussione da Russia (vedasi Olsezia) e altri paesi emergenti, tra cui soggetti sovranazionali per ora minori come l'ASEAN, ma in rapida ascesa, specie in seguito alle recenti (2003, 2004) adesioni di Giappone, Cina, India e Pakistan ai "Trattati di Amicizia e Cooperazione": vale la pena ricordare l'invito al G20 di qualche giorno fa anche a Abhisit Vejjajiva, premier thailandese e presidente di turno dell'Asean. In questa prospettiva è possibile leggere l'adunata generale di Obama per l'Afghanistan come un tentativo di riproporre al mondo un'immagine compatta di NATO, ma, più reconditamente, ancora una volta di sé stessi. Poiché come è chiaro, per usare una litote, non sono gli Stati Uniti ad essere l'appendice della NATO. Infine, per non dimenticarsene, il presidio in Afghanistan rassicura Israele (anche se è tutt'altro che circondato) e al contempo costituisce l'elemento di pressione in caso di eventuale little bargain con l'Iran, cioè nel caso in cui si dialoghi con Tehran senza escludere la possibilità di intervento manu militari. In ogni caso, attorno a questo punto, si avrà maggior chiarezza dopo le elezioni di giugno, il cui esito viene dato molto incerto.

Occorre dunque chiedersi seriamente se esista un dopo-Iraq. Interloquire con l'Iran rappresentava una scelta obbligata, rafforzare l'occupazione in Afghanistan no. O quantomeno non strettamente. Penso, in chiave interpretativa, che ci sia bisogno di uscire dall'equivoco che la politica estera americana sia ambivalente. Certo un'amministrazione democratica è solitamente più attenta a questioni minime di forma: Bush era il tipo di presidente che non doveva rendere conto a nessuno di quel che faceva, e se sì, come si è visto, si avvaleva di prove costruite ad hoc. Pertanto una scelta di rottura rispetto all'amministrazione precedente sarebbe dovuta essere compiuta proprio a proposito di Afghanistan. Inutile ripararsi dietro all'improbabilmente deontologico cambio di approccio in Iran. Perchè così, il dopo-Iraq è solo un Iraq-2. Anche se gli strumenti politico-diplomatici sono quello che sono, e sporcano pure tutto quel che toccano, a quest'inerzia terribile Mr Obama ci dovrebbe forse pensare un po' più attentamente. Can you?



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martedì 3 marzo 2009

stay human

4,5 miliardi di cartone



Stati Uniti, Russia, UE. Il vertice di Sharm El Sheikh chiude tutto cercando di porre la proverbiale pezza al disastro di impotenza e negligenza sfoderato dalla politica estera occidentale in occasione dell'operazione "Piombo fuso". Così come i recenti interventi di Frattini e Kouchner, riguardo alla stabilizzazione dei rapporti siro-libanesi e la nuova legge elettorale con cui si andrà a votare a giugno nel paese dei cedri, anche qui si tratta di un'operazione di retorica diplomatica prevalentemente rivolta all'opinione pubblica occidentale. La politica della "caramellina".

Dietro il summit di Sharm si continua a perpetuare l'esclusione politica di Hamas, attore imprescindibile per una stabilizzazione e normalizzazione a livello regionale e non solo. Tanto più che l'esclusione è pragmaticamente esplicita e sfacciata: di 900 milioni di dollari stanziati dagli Usa per la ricostruzione, solo 300 andranno direttamente per la gestione dell'emergenza umanitaria a Gaza, mentre il rimanente sarà devoluto all'Anp (Fath). Insomma una grande bombola d'ossigeno per "Mahmud il moderato", leader di un partito vessato da gravi difficoltà economiche, oltrechè inviso a molti palestinesi in seguito all'accondiscendenza dimostrata all'avvio delle operazioni militari a Gaza (peraltro occasione in cui centinaia di esponenti di Hamas in Cisgiordania sono stati arrestati, alcuni spariti nel nulla; la caccia all'islamista è avvenuta d'intesa con le Forze armate israeliane e sotto la supervisione della CIA). Sullo sfondo, una molto remota possibilità di ritorno da parte di Fath nella striscia di Gaza, dove fu espulsa da Hamas il 15 giugno 2007 in seguito ad un escalation di ritorsioni da parte dei due gruppi.

La sensazione è quella di aver prodotto ancora una volta uno sbilanciamento degli equilibri di potere, spingendo per Fath e per la divisione, saltando a piè pari il popolo palestinese, che si sarebbe dovuto esprimere in Cisgiordania per il rinnovo del mandato elettorale di Abu Mazen (scaduto il 9 gennaio). Un processo elettorale privo di turbative avrebbe probabilmente condotto i due tronconi del mondo palestinese, Gaza e West-Bank, a unificarsi sotto l'egida di Hamas. Le elezioni ora sono state rinviate di un anno. E nel frattempo si continua a trattare con la leadership de facto anzichè con quella de jure. Non la si può certo definire una mediazione disinteressata. «Perchè», chiede Yusif, dirigente di Hamas, «l'America e l'Europa, anche se con accentuazioni diverse al suo interno, continuano a vincolare il riconoscimento di un governo (palestinese) scaturito da libere elezioni, al riconoscimento da parte nostra di Israele? E' una pregiudiziale e non un elemento di negoziato. Ma nessuno chiede a Israele come pregiudiziale per mantenere le relazioni il riconoscimento della Palestina come stato indipendente». Tanto più che, come lo storico Dan Diner spiega, «i destini incrociati dei due popoli sono segnati dalla "dialettica del non-riconoscimento" reciproco: quando un ebreo dice "Israele" o un arabo palestinese "Palestina", pensa lo stesso spazio. Sicchè la retorica dei due Stati naufraga sempre e continuamente sulle cataratte della realtà» [Dialektik der Nichtanerkennung]. E su questo fronte Hamas è vincente, proprio perchè «ci si sente traditi dagli stessi "fratelli arabi" (Fath) che usano la causa palestinese per i loro giochi di potere», come spiega anche Sari Nusayba, rettore dell'Università al-Quds di Gerusalemme Est.

Israele insiste nel vedere in Fath l'unico interlocutore possibile; una posizione che significa inevitabilmente non voler guardare il problema, mantenere i rapporti di forza e status quo. Non esiste alcuna prospettiva, se non quella della pulizia etnica. "Etnia e sicurezza". Specie da quando, morto Arafat, Israele ha trasformato il regime di Abu Mazen in un protettorato: Chomsky senza mezzi termini parla di Fath come "polizia israeliana nella West-Bank". Mentre Gaza è semplicemente una gabbia sovrapopolata. Per dirla come Moshe Yaalon nel 2002, l'allora capo di Stato maggiore delle Forze armate israeliane: «Ai palestinesi dev'essere fatto capire nei recessi profondi della loro coscienza che sono un popolo sconfitto».

Hamas e Fath si incontreranno ora per una serie di tavoli di confronto. «E' da escludere», fa notare l'analista giordano Ahmad Gamil 'Azm, «che nell'era della contrapposizione tra fazioni, nel contesto di un sostanziale equilibrio di forze, in presenza di potenze mondiali e regionali che non hanno interesse a sostenere la riconciliazione, e alla luce degli attuali conflitti e delle rese dei conti per impadronirsi del potere, vi sia un clima favorevole alla riconciliazione. I palestinesi si trovano di fronte a due movimenti di punta del loro panorama politico, di cui il primo, Fath, sta vivendo le fasi finali della sua vita politica, essendosi dimostrato incapace di rinnovarsi, e il secondo - Hamas - vive una fase di declino caratterizzato da incertezze ideologiche, politiche e militari».

Da Sharm si esce così, con il sorriso tipico della diplomazia occidentale che salva capre e cavoli, una colletta grande stile per Fath, e una pacca a Israele, la testa di ponte per i suoi interessi medio-orientali. La speranza è che dietro alla Clinton, che come ha fatto notare a suo tempo il Washington Post, per le posizioni da sempre espresse è la più filoisraeliana tra tutte le candidature prese in considerazione da Obama, si stia lavorando dietro le quinte in un'operazione di profilo segreto o a basso livello anche con Hamas, consapevoli che un ostracismo nei suoi confronti sarebbe controproducente. In primo luogo per gli interessi stessi di Israle, che si potrebbe veder sfuggire di mano la situazione anche nella West-Bank. Il totale isolamento di Hamas optato da Bush, potrebbe dunque finire in luogo di una nuova strategia di divisione interna di Hamas, puntando in particolare sul cosidetto "partito degli americani" (i dirigenti del partito islamico formatisi negli Stati Uniti), isolando l'ala militarista.

In ogni caso il leitmotiv è costituito dal mantenimento dell'asimmetria Israele-Palestina, di gestione della dominanza dei primi rispetto ai secondi. Si continua a tacere sul continuo avanzamento insediativo israeliano in Cisgiordania, il progetto E1, che creerebbe continuità di popolazione ebraica tra gli insediamenti costruiti da Israele per connettere l'area annessa a Gerusalemme nel 1967 a quella di Ma'ale Adumim, nonostante questo violi apertamente la quarta Convenzione di Ginevra: «La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato». Si tratta di nuove case per 300 mila nuovi coloni, come ha denunciato ieri il movimento israeliano Peace Now, che accentua il frastagliamento cisgiordano spingendo ancora più a est il passaggio nord-sud palestinese. Una difficoltà in più per realizzare uno stato palestinese. A questo si aggiungono i 630 posti di blocco, alcuni fissi ed altri mobili, disseminati qua e là (fonte ONU). Parte delle aree sono interdette all'accesso dei palestinesi, e in altre si richiede un permesso speciale. Israele vieta ai palestinesi l'uso di 200 km di strade principali, riservate agli israeliani. E Gaza, beh, è Gaza.

Del vertice di Sharm-el-Sheikh, i palestinesi avranno letto, e sorriso. Se ancora ci riescono.

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venerdì 23 gennaio 2009

chomsky: undermining gaza



«I think one of the reasons for popular support for this in the United States is that it resonates very well with American history. How did the United States get established? The themes are similar»

[leggi versione originale]

[versione italiana di Daniele Menella - peacereporter.net]



domenica 28 dicembre 2008

"tabula gaza"

«Gli aerei», ha fatto sapere un portavoce dell'esercito israeliano, «hanno colpito 230 obiettivi nella Striscia di Gaza. Tra questi, infrastrutture di Hamas che comprendono edifici, depositi di armi e aree di lancio dei razzi su Israele». Certo. E l'hanno fatto per tabula rasa. Trecento morti civili ed almeno seicento feriti, chissà in quale stato. E si preannuncia anche un'incursione terrestre.

E' una spedizione punitiva a grande scala. Io, ministro della Difesa d'Israele Ehud Barak, preparavo l'operazione da sei mesi; però la colpa dei bombardamenti è dei palestinesi che hanno rotto la tregua. Finiremo pure per crederci. Ma qui, innanzitutto, la questione non è che Hamas abbia ragione o torto: il fatto è che li si stia ricattando tramite un massacro dei civili. Basti pensare a come si sia subito insinuata la dichirazione dell'Anp (al-Fatah), sconfitta si ricorda alle elezioni del 2007: «se Israele riuscirà a liberarsi del regime di Hamas, siamo pronti a tornare a Gaza. Crediamo che la gente sia stufa e voglia vedere un nuovo governo». E' un conflitto (unilaterale) che considera le vite umane prive di valore, ma anche merce di scambio.

Bisognerà aspettare almeno il 2012 per sperare che possa cambiare la sanguinaria e arrogante geopolitica israeliana. Anno entro cui, forse, l'Iran sarà in grado di disporre di un'arma nucleare, una volta ultimato il processo di arricchimento in corso. Solo allora il peso delle diplomazie potranno finalmente giocare ad armi pari, e si potrà giungere ad una stabilità dell'area. Sempre che nel frattempo non arrivi la NATO. Cucù!


martedì 4 novembre 2008

"per una vera riforma dell'Università"

Si è svolto quest'oggi in Aula Magna della Statale (via Festa del Perdono) l'incontro aperto a tutti gli atenei milanesi "Per una vera riforma dell'Università", in programma già da vari giorni. Hanno preso parola il rettore, nonché Pres. della CRUI 2008/2011, Enrico Decleva, alcuni docenti e qualche studente.

Quello di Decleva è stato un intervento a tutto tondo sugli scenari che apre la 133, ma anche sulle motivazioni che prevalgono in questa ingiusta detrazione di fondi, lanciando per certi versi un discorso che punta l'attenzione su una logica di deontologia amministrativa che il provvedimento disattende in maniera palese ed offensiva: il taglio di «470 milioni tolti all'Università per coprire l'abolizione dell'ICI», per esempio. Le critiche si concentrano sull'"iniquità" di una legge-taglio che non è in grado di discriminare le realtà virtuose da quelle che dilapidano risorse, concetto ripreso peraltro dal prof. Benassi, secondo ad intervenire. Occorrerebbe dunque una riforma credibile, che non scardini e mortifichi un sistema già sottofinanziato. Il taglio consistente nel FFO renderà di fatto "sempre più difficile" la destinazione di risorse nel settore edilizio (nuovi edifici, laboratori, ecc.), ma anche nel reperimento di attrezzature e strumenti. Il pericolo è dunque quello del qualunquismo, del fare di tutta l'erba un fascio, o testualmente, del «coprire tutto col fango». Insomma, le accuse (esplicitamente accettate con un: "anche legittime") di nepotismi o, in qualche caso, di privilegi ingiustificati, non devono distogliere l'attenzione dal problema dei tagli a pioggia.

L'invito finale è quello a prender posizione e mostrare un orgoglio cosciente dell'esser universitari, non influenzato da spinte e/o pressioni psicologiche: non "nascondersi dietro ad altri", non "essere spinti" se non da sé stessi. Il rettore Decleva ha poi ricordato quale compito è prerogativa di chi. Le leggi spettano al Parlamento. Ciononostante è necessario quantomeno invocare una modifica, quello sì: bisogna «che si sviluppi un'azione politica», anche se, in questo, «l'Università deve mostrarsi un interlocutore affidabile».

E' seguito un momento di dibattito, con alcune domande poste dagli studenti presenti, prima che Decleva si allontanasse dall'aula per altri impegni. Particolarmente polemico un ragazzo del personale tecnico-amministrativo, secondo cui le linee guida della CRUI per affrontare questo momento, operativamente parlando, non sono state espresse in maniera sufficientemente trasparente.

Sono successivamente intervenuti i Proff. Benassi e Donzelli di scienze politiche. Il primo ha ricordato come, in situazioni di analoga difficoltà economica, paesi come la Francia, abbiano deciso di investire miliardi nella ricerca, selezionando i finanziamenti. La risposta ai nostri problemi non può che corrispondere alla «modifica significativa dei criteri di allocazione centralizzata delle risorse», o in alternativa all'«innalzamento delle tasse, moltiplicando ed estendendo le borse di studio», attualmente a livelli risibili.


Franco Donzelli descrive l'anomalia italiana avvalendosi di tre indicatori OCSE: laureati/popolazione [età 25-64], laureati/popolazione [età 25-34], tassi di abbandono e regolarità. Indici sintetici che possono essere affiancati anche dall'età di ingresso nei ruoli, e dall'età media dei docenti. Le soluzioni vanno ricercate in questo caso nel ridimensionamento di atenei generalisti troppo elefantiaci (specie nei corsi di specialistica e dottorato), caratteristica associata alla debolezza italiana nel confermarsi in qualche settore come punta di eccellenza internazionale. A tal proposito il Prof. di scienze politiche ricorda come nessun ateneo italiano compaia nella classifica delle prime 100 università del pianeta. Una nota anche in questo caso al problema della qualità: «L'errore è supporre che l'Università sia uguale dappertutto nel Paese». Sarebbe meglio fornire «una quota molto rilevante dei finanziamenti (almeno il 30%) sulla base di rigorose valutazioni di merito (relative a ricerca e didattica)» effettuate da «una agenzia indipendente (sia dalle università sia dal Ministero) con forti componenti internazionali». Anche «stipendi, carriere, compiti, ecc.», in questo caso, «dovrebbero essere differenziati università per università, disciplina perdisciplina e su basi di merito individuale». [l'intervento completo del prof. Donzetti è qui visualizzabile].

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lunedì 3 novembre 2008

la bicocca si mobilita

In piazza dei Mercanti, da lunedì 3/11 fino al 13/11, si terranno alcune lezioni in piazza, realizzando quindi una forma di protesta collaborativa ed aperta alla popolazione generale. Il 14/11 si avrà lo sciopero delle università, in occasione del quale gli studenti saranno invitati a partecipare alle relative manifestazioni.

Martedì 4/11, in aula magna in Statale (via Festa del Perdono), alle ore 12 si terrà la conferenza delle università milanesi - “Per una vera riforma dell’ Università”: un'occasione per approfondire i temi e le proposte alternative alla legge Gelmini (133/2008): sistema dei finanziamenti, governance, ricerca, diritto allo studio. Un momento di confronto in cui sarà possibile ascoltare le diverse voci delle università milanesi dalle istituzioni agli studenti. Si invitano studenti, professori e lavoratori.



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Qui di seguito il resoconto dell'assemblea generale del 30/10::..


Gli studenti, i docenti, i dottorandi e il personale tecnico amministrativo, riuniti in assemblea, hanno discusso e riflettuto sui contenuti della Legge 133/08 e delle conseguenze che questa avrà sull’Ateneo di Milano-Bicocca. Sono emerse le preoccupazioni

• per la mancanza di un progetto di sviluppo e di riforma dell’università statale italiana. La Legge 133/08 non può essere considerata una Riforma, ma è semplicemente un piano di risparmio economico, che si concretizza nella riduzione drastica del turn over e con i tagli dell’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario, il finanziamento statale alle università, il quale rappresenta la quota più consistente della parte attiva del bilancio degli atenei, seguita solo dalle somme pagate dagli studenti sotto forma di tasse e contributi).
• per la possibilità nell'immediato futuro di poter procedere con una ricerca ed una didattica di livello. I tagli saranno economici e di risorse umane; questo significa avere meno docenti, un rapporto docenti/studenti più alto, una didattica più difficoltosa e meno tempo da dedicare alla ricerca, che quindi si abbasserà di livello. Inoltre, saranno notevolmente ridotti i finanziamenti per il diritto allo studio, per gli alloggi e le residenze universitarie, per il piano di sviluppo delle università e per le attività sportive.
• rispetto alla possibilità di diventare fondazione, in particolar modo alla luce del fatto che la stessa legge non è chiara (volutamente?) in merito, quindi l'Università non è in grado di capire quale sia davvero l'entità del danno o del vantaggio a diventare fondazione, né comprende cosa implicherà diventarlo in termini di legislazione, finanziamenti, contribuzione studentesca, contratti del personale. Il timore è che questa possibilità sia soltanto uno “specchietto per le allodole“ per far pensare che la soluzione ai tagli consistenti e indiscriminati dell'FFO si possa totalmente recuperare diventando fondazione privata.

Nella discussione in merito ai tre nodi centrali sopra elencati sono intervenuti il Rettore, i docenti, il personale tecnico-amministrativo e diversi studenti. Crediamo che una discussione aperta, chiara e trasparente sia stata ciò di cui tutti avevamo bisogno per iniziare a confrontarci anche sul significato dell'Università e sul suo valore all’interno della società. L’assemblea si augura che sia possibile organizzare nuovamente iniziative e manifestazioni didissenso che siano collaborative e trasversali alle tre componenti dell’università (docenti, personale tecnico-amministrativo e studenti).


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documento assemblea
approfondimento sui tagli finanziari
calendario lezioni in piazza
lds


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mercoledì 6 agosto 2008

gli spaventapasseri

Leggo da "Il Manifesto" del 3 agosto un interessante articolo a firma di Daniele Di Stefano. Pare che le matricole del Palazzo abbiano qualche problema di timidezza che impedisce loro di svolgere il lavoro per cui vengono pagati dai contribuenti. Non riescono proprio ad inserirsi poveretti. Succubi o incapaci?

Molti di questi nomi li avevo già incontrati analizzando le liste del parlamento del Pd in un precedente post (link), per cui posso dirmi, a scelta, non sorpreso o rassegnato. E' il nuovo che avanza. Così veniamo informati che «dei 101 novizi che dalle ultime elezioni politiche occupano gli scranni del Senato, solo 19 possono vantarsi di aver presentato un proprio disegno di legge. Uno su 5. Nel complesso, da questi neo-senatori alle prime armi che occupano un terzo delle poltrone di Palazzo Madama, sono arrivate 90 proposte su un totale di 900 circa: il loro contributo legislativo personale, chiamiamolo così, non supera quindi il 10%. E non va meglio alla Camera. Le onorevoli matricole sono 231 (il 36% dei deputati). Solo 35 di loro sono state colte dal sacro fuoco della proposta di legge (uno su 6). Per un totale di 93 articolati (e la metà quasi porta la firma di un radicale): il 6%, dunque, dei complessivi 1500 ricevuti dagli uffici della Camera».


Ovviamente, come doverosamente non manca di specificare nell'articolo Di Stefano, «sarebbe un errore pretendere di valutare il lavoro di un deputato esclusivamente da questo. E poi cento giorni sono solo cento giorni, certo. Ma l'intraprendenza legislativa è un indicatore». Così come le assenze. E da questa sorta di operazionalizzazione della bontà del loro lavoro emergono segnali tutt'altro che rassicuranti.


I "nuovi" sono stati reclutati col sistema delle liste bloccate. Collocati dai partiti in posizioni eleggibili sulla base delle proprie referenze, non sulla base delle proprie attività a livello territoriale, non sulla base di un discorso che presupponga meritocrazia. Il dubbio che i nuovi presentati in campagna elettorale siano degli "spaventapasseri", per allontanare le rogne dell'opinione pubblica in periodo caldo (elezioni), diventa certezza quando non si può far altro che registrare l'inoperosità di questi di fronte alla politica dei pochi. Quella sempre molto attiva degli incontri privati tra capi di fazioni diverse (vedi ultimamente incontro a quattr'occhi D'Alema-Fini). E' questo il vero problema, come faceva presente Tabucchi qualche tempo fa. Poche persone si sostituiscono alla Camera e al Senato legificando per conto loro, ed escludendo il processo democratico dal tavolo privato. Per esempio si è potuto constatare come venerdì 1 agosto, il Pd abbia ignobilmente barattato il non-voto sulla mozione-Vizzini, per il conflitto di attribuzioni di poteri contro la Corte di Cassazione in merito al caso Eluana Englaro, con il non-voto del Pdl su un ordine del giorno del Pd con il quale il Senato si impegnerà a riservare una sessione straordinaria «per l'esame e l'eventuale approvazione entro l'anno 2008» di un ddl sul testamento biologico. «Gentlemen's agreement».


D'altronde, «i parlamentari hanno una funzione tecnica che nella maggior parte dei casi è spingere un bottone» [Alessandro Campi]. «Cos'ha prodotto», si chiede Di Stefano, «la candidatura di bandiera, nel Pd, di Massimo Calearo? Proposte di legge, nessuna. Ad oggi. Calearo, peraltro assente ad un terzo delle votazioni in Aula, la firma s'è limitato a metterla sotto le iniziative (tre in tutto) di colleghi di partito. Matteo Colaninno, altra candidatura-simbolo: anche lui assente una volta su tre, anche lui di proposte come primo firmatario neanche l'ombra (17 quelle sostenute come co-firmatario). Per Deborah Bergamini, Pdl, già dirigente Mediaset e Rai, stessa solfa: progetti presentati zero, assente al volo nel 25% dei casi. Daniela Cardinale, Pd, figlia di Salvatore, ministro ai tempi di D'Alema e Amato: zero. E così via: Maria Anna Madia (capolista del Pd nel Lazio, che ha però al suo attivo un'iniziativa di riforma del regolamento della Camera), Fiamma Nirenstein (Pdl), Pina Picierno (Pd, capolista in Campania), il costituzionalista Salvatore Vassallo (23% di assenze al momento del voto), l'ex sindacalista Pier Paolo Baretta (24%), Roberto Morassut (ex assessore capitolino, Pd), l'ex operaio ThyssenKrupp Antonio Boccuzzi (lontano dall'Aula una volta su 5), il portavoce del Family day Savino Pezzotta, Santo Versace, Maurizio Scelli, leader della Croce rossa ai tempi delle due Simone rapite in Iraq (Pdl). E al Senato: il generale Mauro Del Vecchio, Barbara Contini: nemmeno un disegno di legge porta in cima la loro firma. Questo per limitarsi ai vip. Sandra Zampa, capo ufficio stampa del governo Prodi: zero (più il sostegno a qualche collega). Idem Luciana Pedoto (ex segretaria particolare di Fioroni). E come loro i tanti Abelli Gian Carlo, Abrignani Ignazio, Agostini Luciano, Angelucci Antonio, Aracri Francesco... [...] Qualcuno potrebbe pensare di chiamarli fannulloni. Ma forse si stanno solo portando avanti con le riforme: auto-riducendo, di fatto, il numero dei deputati».

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mercoledì 9 luglio 2008

day after no cav

A poco più di ventiquattro ore dal "No Cav Day" cosa rimane? Una nebbia che avvolge i contenuti della manifestazione, niente di nuovo, ed una delocazione/inversione del bersaglio, niente di nuovo. Sollevatasi la nebbia rimangono i seguenti articoli di giornale (prendiamo il Corriere): «Berlusconi: Il corteo? Spazzatura», «La Cei: Menzogne contro il Papa», «Resa dei conti tra Veltroni e Di Pietro», «Bufera sui girotondini», «Grillo & Guzzanti, fiera del turpiloquio». Sollecito chiunque sia interessato a farsi un'opinione, partendo da sé stesso, su ciò che è stato detto, a guardarsi i video integrali dei singoli interventi. Perchè, teo gratias, abbiamo il Tubo. Corriere, Repubblica, Unità, Giornale non si occupano degli "oggetti", piuttosto sono impegnati (proprio il caso di dire "a pieno regime") a convogliare le idee verso lidi più sicuri. Ma nel porto del padrone, è il basso volgo a scaricare le navi e farsi il culo (e farselo mettere nel culo).

Pertanto fornisco qui, "brevi manu", gli interventi di cui si è servita questa volta l'Azienda-Partito-Informazione:

- Guzzanti [parte 1]

- Guzzanti [parte 2]

- Grillo [parte 1]

- Grillo [parte 2]

- Travaglio


Qualche notizia buona c'è: Veltroni sta lasciando l'opposizione in mano a terzi. Il pericolo più grande era vedere il Pd in piazza a manifestare contro i suoi interessi, diretti o indiretti che fossero. Chiaramente non si può pensare che si faccia da parte ancora a lungo: dopotutto l'obiettivo in questo momento è quello di calmare le acque (in tal senso va letta la convocazione di una manifestazione il 25 ottobre, con "appena" più di tre mesi di ritardo). Ma sebbene, con un paio di apparizioni a "Matrix" e a "Porta a Porta" al momento giusto, si possa riguadagnare velocemente popolarità, il serbatoio faticherà a ritrovare il pieno. Sempre che lo avesse mai trovato.


[Bill, "Kill Bill"]

«Mi trovi sadico? Sai, scommetto che adesso potrei friggerti un uovo in testa, se solo volessi. Sai bimba, mi piace pensare che tu sia abbastanza lucida persino ora da sapere che non c'è nulla di sadico nelle mie azioni. Forse nei confronti di tutti quegli altri, quei buffoni, ma non con te. No, bimba, in questo momento sono proprio io, all'apice del mio masochismo».



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lunedì 12 maggio 2008

questione fazio travaglio

La parabola istituzionale, in fase di caduta libera, citata ieri da Marco Travaglio a "che tempo che fa" è semplicemente la madre di ogni discorso. La muffa o il lombrico è l'aspetto evidente di un "sommerso" di vecchie origini, che si fa sempre più insistente, premente. Ecco perchè, ogni qualvolta si affacci qualcuno in grado di smerdare personalità "illustri" davanti ad un pubblico di massa, viene zittito e posto al confino, se alle sue spalle non ha un referente politico. E non averne, mala tempora currunt, è sempre più presupposto imprescindibile (condizione necessaria non sufficiente) di pensiero libero-indipendente. Travaglio un referente indiretto ce l'ha, ed è forse il motivo per cui si riesce ancora ad intravederlo, qui e lì, in giro, seppure in situazioni secondarie, ed in contesti televisivi destinati ad un pubblico schierato. Eppure, il fatto stesso di essere stato spiato dal Sismi, al pari dei giudici dei processi più "caldi" d'Italia, mi rende quasi convinto, sebbene non costituisca una prova, che sia effettivamente libero ed incondizionato.

La dimostrazione di caccia alle streghe è puntuale. Da destra e (presunta) sinistra all'unisono: "inaccettabile". Con varianti di minimo spessore. Dichiara la Finocchiaro: «Trovo inaccettabile che possano essere lanciate accuse così gravi, come quella di collusione mafiosa, nei confronti del presidente del Senato, in diretta tv sulle reti del servizio pubblico, senza che vi sia alcuna possibilità di contraddittorio».

Ora, sul fatto che debba sussistere necessariamente un contraddittorio potrei essere potenzialmente d'accordo, ma i fatti mi dimostrano che ovunque vi sia un dibattito di una certa importanza (per chi controlla la massa), contraddittorio diventa sinonimo di ostruzionismo. Tant'è che in ogni ambito si sono sviluppati veri e propri professionisti, da Mosca e Biscardi (quest'ultimo è curioso notare come abbia per di più lo status di conduttore), fino al sempreverde Sgarbi. E' il principio stesso di dibattito che che viene messo in discussione: le conduzioni e moderazioni inesistenti fanno sì che si sfoci in situazioni di anarchia interazionale, nella quale i protagonisti sono relegati a dimostrare solo una capacità di timing, anziché di argomentazione. Pertanto il democraticismo della Finocchiaro è strumentale, mentre l'inaccettabilità delle accuse di Travaglio sono un inginocchiamento a novanta gradi, in nome di un omertoso senso di appartenenza di classe (o casta), perchè non prova in nessun modo come le dichiarazioni in oggetto dovrebbero ritenersi calunniose, dal momento che Travaglio si muove da documenti e sentenze, dunque legittimi e forme di libera espressione.

La Finocchiaro non è neanche nuova a questo tipo di manifestazioni di contiguità politica. Nel 2002, per esempio, in occasione della protesta di piazza del movimento spontaneo dei "girotondi" contra legge Cirami, fu sorpresa da un giornalista dell'Espresso mentre si scusava con l'onorevole avvocato Ghedini, che le chiedeva un atteggiamento morbido, senza ostruzionismi, sulla legge che si stava approvando alle Camere: «Cercate di capire i nostri problemi... a partire dai girotondi».

C'è poi il discorso degli attori satellitari, quelli che per ruolo dovrebbero essere neutri ed imparziali, e che invece promuovono le posizioni dei forti, con modi viscidi e difficili da riconoscere, perchè il loro compito è quello di giocare sul confine invisibile del lecito-illecito. E' su questi che si crea il consenso di massa. Vuoi mettere una dichiarazione della Finocchiaro o di Gasparri, col potenziale persuasivo del conduttore che, non solo legge una nota della direzione della sua emittente televisiva, ma aggiunge postille velate e personali a sfavore del bersagliato? «Consentire la totale libertà d'espressione a tutti gli ospiti, ma [...] non posso che scusarmi» (link). Non mi sembra che Luttazzi abbia inscenato una difesa così pateticamente paracula e pseudo politically correct quando intervistò Travaglio a "Satyricon", il programma che conduceva su Rai3 prima di esser, per l'appunto, silurato dai palinsesti dell'anno venturo. O vuoi mettere il carico emotivo che provoca il sito del Corriere che spaccia l'accaduto come un fatto di importanza critica, ponendolo come prima notizia sul suo sito da tutta la giornata, insieme a Repubblica, Unità, ecc.? E' incredibile, che alle 23.47 del giorno successivo all'intervista si continui a refreshare le home page di questi giornali trovando ancora questi articoli. E' incredibile ed insieme indecente, questo bombardamento ad oltranza che ha, per messaggio subliminale, "Travaglio l'ha combinata davvero grossa".


Ecco perchè ritengo il seguente spezzone di un'intervista a Licio Gelli, apparsa su "Repubblica" il 28 settembre 2003, l'epilogo più calzante.

«Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa [...]. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni [...]. E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo ad un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito. Il progetto di riordino del sistema televisivo? Buono. La riforma della giustizia? Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque? L'avevo messo per iscritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. I nuovi burattinai? Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi».

Mai come in questa occasione, mi sentirei di rispolverare l'argomentazione medievale principe: «Ipse dixit».

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mercoledì 7 maggio 2008

la guerra che non finisce

In Iraq la guerra continua nonostante ufficialmente dovesse ritenersi una «mission accomplished» (george w. bush all rights reserved) da ben cinque anni e qualche giorno. Un conflitto capitalistico post-coloniale, figlio della normalizzazione delle follie amministrative. Ma figlio anche dei media, della censura, della mistificazione. Se, come sostiene Baudrillard, siamo immersi nell'iperrealtà, è del tutto logico aspettarsi che buona parte della popolazione si appiattisca sulle linee governative più squallide e ciniche, senza sapere né cosa, né come, né perchè. E probabilmente l'economizzazione delle risorse cognitive (l'inferenza su un qualcosa che viene fatta a partire da aspetti di quel qualcosa assolutamente secondari) studiata in psicologia sociale fa il resto. Nell'iperrealtà non esiste più una realtà a sé stante che la tv ci consente di vedere, ma piuttosto essa è sostituita da una realtà di "grado superiore", interamente affidata alle immagini televisive.

Le stime più recenti elaborate dall'Iraq Body Count, un gruppo non governativo formato da ricercatori e volontari inglesi ed americani, indicano una forbice di morti civili tra 83.441 e 91.003, dall'inizio del conflitto. Non esattamente uno scherzetto. Ed a quel punto si arriva a glissare e parlare di errori militari occorsi durante "qualche" attacco rivolto a "qualche" persona specifica. Il che, agli estremi, si traduce con: «Gli iracheni sono i responsabili della loro morte». O ancora, «ognuno ha quel che si merita». Sotto sotto si arriverà forse a credere a quello che dicono i mandanti di questi stermini, primo tra tutti il signor «mission accomplished».

Forse sarà proprio come prospettava Enrico Lucci, intervistato a Matrix qualche mese fa, su un argomento sicuramente più frivolo della guerra in Iraq. Cioè che in futuro, chi leggerà i libri di storia e studierà il periodo in cui siamo immersi attualmente, si chiederà, attonito, "come è potuto succedere?", "come sono potuti esistere certi personaggi?", (ed aggiungo io) in ragione del fatto che sono storicamente successivi ad eventi storici di importanza monumentale quali il marxismo nell'Ottocento ed il Sessantotto nel Novecento, che avrebbero dovuto portare ad un travirgolettato "risveglio delle coscienze". Possiamo saggiare un po' di questi futuri interrogativi: basta prendere le dichiarazioni di Bush, smontarle e rimontarle in senso cronologico. Lo sbellicamento è assicurato.

«Buone notizie per tutti gli uomini e le donne che hanno combattuto... missione compiuta. La battaglia in Iraq è una vittoria sulla guerra del terrore iniziata l'11 settembre 2001, e che ancora va avanti». [1 maggio 2003]

«C'è ancora chi crede che le condizioni lì [in Iraq] siano ancora tali da permettere a loro di attaccarci. La mia risposta è, che ci provino! Abbiamo forze a sufficienza per fronteggiare la situazione sicurezza». [2 luglio 2003]

«Ci sarà una svolta tra due settimane a partire da oggi». [16 giugno 2004]

«Domani il mondo sarà testimone di una svolta nella storia dell'Iraq, di una pietra miliare per l'avanzamento della libertà, di un momento cruciale nella guerra al terrore». [29 gennaio 2005 - vigilia delle elezioni in iraq]

«Sono assolutamente convinto che le azioni intraprese in Iraq stanno influenzando i riformatori e gli amanti della libertà nella maggior parte del medio oriente. Credo che fra poco ammirerete la nascita della democrazia in molti di questi paesi, il che getterà le basi per l'instaurarsi della pace». [giugno 2005]

«Il 2005 sarà ricordato come un anno che ha segnato la svolta nella storia dell'Iraq... ed una svolta nella storia della libertà» [12 dicembre 2005]

«Il nostro paese sta tentando una nuova strategia in Iraq, e chiedo che possa avere la possibilità di lavorare. E chiedo che supportiate le nostre truppe scese in campo di battaglia.» [gennaio 2007]

«Vorrei spendere una parola per le nostre truppe in Iraq. Avete svolto il compito che le circostanze vi chiedevano, con incredibile abilità. Il cambiamento che avete reso possibile in Iraq, sarà archiviato dalla storia americana come un brillante successo. Sebbene la guerra sia difficile, non sarà senza fine». [10 aprile 2008]


(dichiarazioni di Bush riportate da un'estrazione di Al-Jazeera nel seguente articolo http://english.aljazeera.net/NR/exeres/FC850AFB-24CB-4BE4-822C-B8AB9C179135.htm)



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sabato 22 marzo 2008

i deputati Pd della XVI legislatura

Quella che verrà esposta, è una ricerca svolta sulle liste che il PD ha presentato per la Camera dei Deputati della XVI (ventura) legislatura. Un'indagine nata con l'intenzione, nonché ambizione, di prevedere e mettere a nudo gli aspetti più salienti cui queste liste si fanno carico. Insomma, un lavoro di decodifica di quel lenzuolo amorfo ed "illeggibile" di nomi e cognomi. Tre gli aspetti oggetto d'indagine: numero di donne candidate ed eleggibili, età media degli eleggibili, numero di candidati "nuovi" (quelli a cui Veltroni affida il rinnovamento insomma) eleggibili. Perchè questi e non altri? Beh, perchè è su questi aspetti che i vertici del Partito Democratico hanno, in gran parte, insistito nei scorsi giorni di campagna elettorale, ed è su questi che si vuole incentrare e plasmare, nelle dichiarazioni, l'identità della nuova formazione politica.

Si parte dal risultato delle proiezioni attuali della Ispo: Pd fermo al 36,5%. Una percentuale con cui si può ambire a qualcosa come 225 seggi parlamentari circa, circoscrizioni estere escluse. Partendo dalle stesse proporzioni di eletti, per circoscrizione, delle amministrative 2006, si ottengono le seguenti stime: Piemonte(I) 11 seggi, Piemonte(II) 8 seggi, Lombardia(I) 14 seggi, Lombardia(II) 13 seggi, Lombardia(III) 6 seggi, Trentino Alto Adige 3 seggi, Veneto(I) 9 seggi, Veneto(II) 6 seggi, Friuli Venezia Giulia 5 seggi, Liguria 7 seggi, Emilia Romagna 21 seggi, Toscana 18 seggi, Umbria 4 seggi, Marche 7 seggi, Lazio(I) 15 seggi, Lazio(II) 4 seggi, Abruzzo 5 seggi, Molise 1 seggio, Campania(I) 11 seggi, Campania(II) 9 seggi, Puglia 13 seggi, Basilicata 2 seggi, Calabria 7 seggi, Sicilia(I) 7 seggi, Sicilia(II) 9 seggi, Sardegna 6 seggi. Totale: 221 seggi alla Camera. A cui eventualmente si aggiungeranno 5 o 6 derivanti dalle circoscrizioni estere di "Europa", "Nord-Centro America", "Sud-America", "Africa-Asia-Oceania-Antartide".

E' indubbio ammettere che prendere in esame un Pd fermo al 36,5% sia vincolante ai fini del risultato finale. Così come è altrettanto lapalissiano il fatto che la percentuale potrà subire oscillazioni significative. Eppure, dobbiamo considerare che i 7.5 punti percentuali di vantaggio del PdL sono tali da consentirci, a meno di trenta giorni dalle elezioni, di dare per assodato il premio di maggioranza a Berlusconi. Salvo cataclismi e/o sindromi suicide, Silvio & allegra_combricola avranno a disposizione i famosi 340 seggi. Che sottratti a 617 danno 277 seggi alle opposizioni. Di cui (dico io) 221 al Pd.

Dopo le doverose considerazioni metodologiche, rese a garanzia di trasparenza, e a servizio di chi vorrà o potrà contestare l'opportunità delle mie assunzioni di partenza, il quadro che emerge è il seguente.

PRESENZA FEMMINILE::.. La percentuale di donne candidate è del 41.98%, in linea con quanto affermato da Franceschini; quest'ultimo, si è tuttavia dimenticato di specificare che 195 di queste 259 sono "presenze riempi-lista". La percentuale di donne eleggibili è invece del 28.96%, addirittura al di sotto della quota minima del 33% stabilita dall'Assemblea costituente in tema di elezioni. Poiché le disgrazie non vengono mai sole, il gruppo delle 64 fortunate è nutrito di alcune presenze che lasciano il segno. Il dirompente femminismo-pd si materializza, in più di un caso, come appendice mascolina: vedi la Lanzillotta moglie di Franco Bassanini, la Madia figlia dell'amico consigliere comunale di Veltroni e nipote dell'avvocato di Mastella, la Cardinale figlia di Salvatore cui è stato impedito di candidarsi personalmente, la Villecco alias vedova Calipari e la Laganà alias vedova Fortugno. In altri casi si manifesta come protesi maschilista: ecco allora le avvenenti candidature di Pina Picierno, Marianna Madia (doppiamente conveniente questa, prendi due paghi uno) e Alessia Mosca. Non importa quanto insipide, banali e ignoranti (vedere per credere l'ultima delle tre) si dimostreranno: l'importante è "puntare sulla figa". Che tra l'altro è un concetto di marketing molto caro a Berlusconi. Fossi donna e pd-ina, avrei la coglionìte. Perchè non solo le donne saranno rappresentate quantitativamente da un numero di elette inferiore a 100/130 - Franceschini è spudorato - ma saranno anche sottorappresentate dal punto di vista qualitativo, dal momento che la situazione si presenta avvilente per aspetti che spaziano dalla subordinazione all'insufficienza neuronale. Si potrebbe continuare citando altre presenze immotivate e raccomandate come la Zampa o la Pedoto, ma il concetto rimane: non è questo il modo di coinvolgere le donne in politica. Il Pd ha aperto volutamente le porte alle donne in maniera maldestra, giocando sugli equivoci. Tant'è che alla fine, svanito il fumo, non rimane alcun arrosto. Il dato malinconico è che solo 10 circoscrizioni su 27 raggiungono il 33% di rappresentanza (eleggibile) femminile: Trentino Alto Adige, Veneto(I e II), Emilia Romagna, Toscana, Lazio(II), Abruzzo, Puglia, Calabria, Sardegna. Tra queste solo Emilia Romagna e Toscana eleggono un numero consistente di deputati, ragion per cui quel 33% nelle altre circoscrizioni ha un peso numerico relativo. Dulcis in fundo, alle lombarde toccherà consolarsi con una candidatura di rigore: Paola Binetti.


ETA' MEDIA DEGLI ELEGGIBILI::.. Pensare alla giovinezza come un bene assoluto sarebbe un errore. Esattamente come bollare "antipolitico" un giudizio che esprima perplessità circa lo stato gerontocratico della politica italiana. La questione si colora di "simpatico" se si pensa che il postfordismo, la precarietà e la privazione del "tempo", inteso come mezzo per rivendicare salari più alti in base all'esperienza accumulata, per certi signori adibiti al settore amministrativo, non sono mai esistiti. Qui, come soprascritto, si sarebbero trattati i criteri-liste e gli argomenti cavalli di battaglia della propaganda Pd. Per quanto riguarda l'età degli eleggibili, verrà declinata la tentazione di deontologizzare i dati che emergono; ci si limiterà, casomai, a constatare che Franceschini è nuovamente equivoco. L'età media dei favolosi 221 è di cinquant'anni, con punte di 77 (Colombo-LombardiaI) e 70 (Marini-Calabria e Benvenuto-PiemonteI). A Ciriaco de Mita bastavano appena tre anni in meno per rientrare ancora nei piani del Pd. Gli over 60 sono ventidue, non tantissimi per la verità. Stupisce semmai il numero di under 40, trentaquattro. Per quello che dichiarava Franceschini, sia chiaro, non per altro: «Nelle liste della Camera ci sono 190 candidati sotto i 40 anni». Non sia mai, escludere dal calcolo i riempilista. D'altronde, lui è un democratico con i controcazzi. Le circoscrizioni, invece, con età media più elevata e più bassa sono rispettivamente CampaniaI (54,45) e Molise (il cui unico candidato eleggibile troneggerà a 41 anni). Il futuro deputato Pd più giovane sarà Pina Picierno, ventisei anni, già accennata. Eccovi una chicca. Pina, presidente federale dei giovani de "la Margherita", nonché nipote dell'ex sindaco DC di Teano, si è laureata in Scienze della Comunicazione presentando una tesi sperimentale sul linguaggio di Ciriaco de Mita, il suo "mito": «Utilizza - spiegò - le metafore, mutuate per lo più dal mondo del calcio o della sanità, per costruire un discorso diretto alla gente comune. Inoltre fa riferimenti alla sua esperienza o vita privata, un modo per coinvolgere gli interlocutori che si possono identificare». Un'immagine sublime per chiudere il quadro. Il più giovane, rincorre idealmente il più vecchio, che, come in un ciclo (nostos) in cui inizio e fine di percorso coincidono, si ripresenta ad ogni punto di partenza, più forte e ringalluzzito che prima.

«IL NUOVO CHE AVANZA»::.. Il problema che innanzitutto si pone è quello di definire "nuovo", che insieme a "cambiare", rappresenta il binomio inscindibile di ogni propaganda elettorale. Un "nuovo" può essere provocato da una combinazione di elementi, un riciclaggio, oppure, può essere provocato da qualcosa completamente in rottura col passato. Con tutte le sfumature e le gradazioni del caso, un foglio di carta riciclata può essere ritenuto "nuovo" al pari di un foglio di carta di prima produzione. Quando dunque Franceschini dice che «i nuovi parlamentari saranno tra 125 e 248» esiste un problema semantico non irrilevante. Specie perchè la quota indicata non è verificabile neanche utilizzando il paradigma interpretativo della carta riciclata. Che cosa significa, esattamente, "nuovo" per Franceschini?

Se si volessero escludere dalla conta, oltre ai deputati e senatori della XV legislatura, anche i direttori-coordinatori regionali e provinciali DS-Margherita, i consiglieri regionali-provinciali, i consiglieri ed assessori di comuni importanti, i segretari, le segretarie e i vari vice, si arriverebbe ad etichettare come "nuovi" solo 26 candidati parlamentari eleggibili (l'11,76%). Ed è una stima ottimistica. Se, invece, si considerassero "nuovi", solo i candidati eleggibili non presenti nella XV legislatura, il che paradossalmente comprenderebbe anche lo stesso Veltroni, allora la quota di interessati arriverebbe ad 87 (il 38,91%). Salvo poi limare qualche numero sulla base dei ripescaggi che avverranno una volta che i vari Veltroni, D'Alema, Fioroni, ecc. opteranno per una certa circoscrizione (dato che i loro nominativi compaiono sulle liste di più regioni). In sostanza, sia che si parta dalle condizioni più restrittive di "nuovo", sia che si parta dalle più tolleranti possibili, non si riesce a comprendere in nessun modo il range indicato da Franceschini. Né 125, né (fantascienza delle fantascienze) 248. Quel che rimane certo è che, oltre a quelle 195 presenze più o meno trite e ritrite, ci saranno per il Pd in Parlamento: 1 metalmeccanico della Tyssen Krupp, 1 avvocato penalista, 1 notaio, 1 direttore di un centro ricerche, 1 presidente di associazione, 2 dirigenti scolastici, 3 insegnanti, 5 consiglieri di comuni minori, 3 sindaci di comuni minori, 3 imprenditori, 1 presidente federmeccanica (Calearo, che sino a tre settimane fa, si racconta, avesse la suoneria del cellulare con l'inno di Forza Italia), 3 sindacalisti ed 1 segretaria generale della CSM. Punto. La circoscrizione che eleggerà il più consistente numero di deputati non presenti nella XV legislatura sarà, neanche a farlo apposta, Lazio(I), dove ben 5 (più 1 piazzato in SiciliaI) proverranno dalla squadra amministrativa romana di Veltroni, o "vicini" della provincia/regione: trattasi di Marco Causi, Enrico Gasbarra, Ileana Argentin, Massimo Pompili, Roberto Morassut, Maria Coscia.

In ogni caso «i parlamentari», come dice il prof. di "storia delle dottrine politiche" Alessandro Campi a Omnibus, «hanno una funzione tecnica che nella maggior parte dei casi è spingere un bottone», o dire al compagno di banco di farlo per lui quando è assente. «Io, una personalità che sia veramente tale, veramente indipendente, non ce la manderei in Parlamento. In questo Parlamento servono persone fedeli, capaci di star sedute anche per 15 ore». Figurarsi in Senato, dove il "Porcellum" ha sancito la beatificazione della fedeltà supina o della compravendita delle persone-oggetto. Un assurdo che degenera nel casting, esattamente come avviene in tv per quiz o show. Uno scenario ben tragicomizzato da Filippo Facci: «Ma allora di questo passo arriveremo a selezioni tipo casting, come per la tv? Scherzavo, ma nel pomeriggio eccoti la telefonata di un ex parlamentare di Forza Italia: "Guarda che i casting li hanno già fatti. Adesso non so, ma nel 1994, per le politiche e le europee, tu mandavi il curriculum e loro ti facevano la prova video. Ma poi: non l'hai vista l'Unità di oggi?". No, non avevo ancora letto che "il Pd fa casting ad aspiranti collaboratori" e che in centinaia avevano risposto, tra questi una famosa attrice e la solita Marianna Madia».

Quindi, perchè affannarsi tanto?


FONTI::.. Partito Democratico, Openpolis, Camera, Google

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lunedì 14 gennaio 2008

1976: Italia sotto il fuoco incrociato Nato

"La Repubblica" è venuta in possesso, grazie alla norma che libera dal segreto le carte di Stato dopo trent'anni, di un elaborato del Planning Staff del Foreign Office, il ministero degli esteri inglese, intitolato "Italy and the communists: options for the West". Il documento, il cui resoconto è qui reperibile, è storiografia allo stato puro. Italia, 1976. La guerra fredda ha messo in moto negli anni precedenti una serie di strategie, alleanze, sistemi. L'italia filo-americana è tuttavia in una fase di grande incertezza. Il Pci è in grande ascesa, la Dc in flessione, le elezione del 20 giugno si stanno avvicinando. I grandi boss della Nato, osservano, registrano e studiano le mosse da adottare, consci del fatto che l'Italia rappresenta un grande nodo strategico per l'Alleanza Atlantica, dunque logicamente preoccupati. Al punto da proporre, tra le possibili soluzioni, il "coup d'etat" contro il "pericolo rosso". Di seguito alcuni spezzoni dell'articolo pubblicato ieri da la Repubblica. Le ingerenze e le schifezze sotto banco degli anni 2007-2008 messe nere su bianco, prossimamente sui vostri schermi a partire dal 2040.

L'ambasciatore Millard consulta Giovanni Spadolini. Lo trova piuttosto agitato: "È un sintomo grave che il presidente Moro abbia convocato Berlinguer a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei ministri. Così ora i comunisti fanno virtualmente parte della maggioranza, ma non sono più in grado di dare ordini alla classe operaia. Per farlo - scherza, ma non troppo Spadolini - avrebbero bisogno dell'Armata rossa". E comunque: "Il Pci è ormai parte integrante del sistema politico, che sta andando a pezzi. L'unica speranza è che sia contaminato dal potere come gli altri partiti".

Crosland: "Il Pci non avrebbe il prestigio di cui gode se gli altri partiti italiani non fossero messi così male. Ma vi sono segni di decadenza anche tra i comunisti, corruzione, come nel caso di Parma". E francamente colpisce che leader così potenti si abbassino a parlare di un piccolo scandalo edilizio che nell'autunno del 1975 coinvolse l'amministrazione rossa della città emiliana. La risposta di Kissinger, comunque, sembra stizzita: "Sembrano tutti ipnotizzati dai successi del Pci, senza avere idea di cosa fare per bloccarne l'ascesa". Il 13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department del Foreign Office elabora un dossier che ha proprio il compito di stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse a seconda dei vari scenari. La prima parte è dedicata appunto a come impedire che il Pci vada al governo e sono indicati i vari passi da compiere: finanziamento degli altri partiti, orchestrazione di campagne stampa sul pericolo, attacco alla credibilità delle Botteghe Oscure, moniti ai sovietici.

Nella seconda parte il documento offre delle soluzioni per così dire pratiche nel caso il Pci sia già riuscito a conquistare una quota di potere, cioè sia già andato al governo. A questo punto gli scenari sono cinque, e cinque di conseguenza le options:
1) "business as usual", cioè continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato;
2) "misure di ordine pratico-amministrativo" per "salvaguardare i segreti e i processi decisionali dell'Alleanza atlantica";
3) "persuasione di tipo economico" che si traduce in una serie di pressioni anche sul piano della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale;
4) operazioni di basso profilo e supporto attivo delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con l'obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di Stato incoraggiato dall'esterno". Vantaggi: "Tali misure possono aiutare a rimuovere il Pci dal governo". Svantaggi: "Vi sono immense difficoltà pratiche per portare a compimento questo tipo di operazione [...] anche se l'intervento esterno servisse a rimuovere il Pci dal potere, la situazione politica italiana rimarrebbe instabile, rafforzando così l'influenza comunista e quella dell'Urss sul lungo periodo";
5) "l'espulsione dell'Italia dalla Nato". Vantaggi: "Si tutelano i segreti e si elimina la possibilità che l'Italia comprometta l'alleanza dall'interno". Ma in questo caso, secondo gli analisti del Fco, si arriverebbe alla "chiusura di tutte le basi nel paese, destinato a diventare neutrale con un orientamento verso l'occidente [...] La Sesta Flotta ne sarebbe danneggiata. Grecia e Turchia potrebbero chiedersi se valga la pena continuare a far parte dell'alleanza. Potrebbe anche essere compromessa la capacità americana di intervenire in Medio Oriente e di influenzare quei paesi a livello politico.

Il rapporto top-secret è inviato a Londra dall'addetto militare dell'ambasciata britannica a Roma, colonnello Madsen, un mese esatto prima delle elezioni del 20 giugno. Titolo: "La reazione delle forze armate italiane alla partecipazione comunista al governo e l'effetto che essa può avere sul contributo dell'Italia alla Nato". Sono undici pagine fitte e dettagliatissime, dai piani di ristrutturazione appoggiati dal Pci al movimento dei "proletari in divisa" organizzato da Lotta continua. E di nuovo le conclusioni dell'indagine vanno a parare sul colpo di Stato: "Gli ufficiali delle Forze armate sono per la maggior parte di destra o di estrema destra. Tuttavia i soldati di leva riflettono le inclinazioni politiche tipiche dell'Italia attuale. In teoria, se non in pratica, il Pci potrebbe contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate. Una eccezione importante è costituita dai Carabinieri, ottantaseimila uomini tra i quali il Pci non ha appoggi. Ma i Carabinieri sono tradizionalmente leali al governo, qualunque sia il suo colore politico".

Nell'ambito dell'amministrazione britannica, che è pur sempre costituita da laburisti, ci sono delle diverse valutazioni. Quelle che pone all'attenzione del Segretario di Stato il suo consigliere politico David Lipsey suonano ad esempio più moderate e molto meno interventiste: "Se diamo troppa corda ai comunisti potrebbero dichiararsi innocenti oppure impiccarsi da soli. Se invece ci imbarchiamo in un'operazione di linciaggio - è la conclusione - sarà la nostra credibilità democratica ad essere danneggiata, non la loro". Anche per questo il governo inglese è preoccupato che studi, indagini e relazioni restino al sicuro. "La loro esistenza non deve essere rivelata - è la raccomandazione - La Gran Bretagna non deve essere vista come un governo che interferisce negli affari interni dell'Italia".

E con questo si arriva finalmente al 20 giugno. I risultati non potrebbero essere più ambigui. La Dc al 38,7 per cento e il Pci al 34,3 risultano i "due vincitori", come li definisce Moro.

Gerald Ford, Callaghan, Schmidt e Giscard d'Estaing si incontrano alle 12,45 di domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel [...] i quattro capi di Stato sono d'accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario.

Quella riunione si tiene effettivamente a Parigi, all'Eliseo, l'8 luglio del 1976. [...] Le delegazioni producono una bozza d'intenti che a distanza di trent'anni finisce per avere un certo peso storiografico. S'intitola "Democracy in Italy" e in pratica espone ai futuri governanti italiani quello che devono fare. Così comincia: "Malgrado gli ulteriori progressi del Pci, le recenti elezioni consentono di mantenere in vita la democrazia in Italia. Ma è arrivato il momento di mettere fine a questa deriva". La parola usata è "slide", uno scivolamento che porta a una caduta, al collasso italiano.

Per battere il Pci, la Dc dovrebbe ripulire la sua immagine di partito tollerante della "prevaricazione e del sotterfugio", ha il dovere di "liberarsi delle pecore nere", la necessità di "mettere ordine a casa sua", di svecchiarsi e arruolare giovani, assicurare maggiore spazio alle donne, ai lavoratori e ai sindacati. Suo compito è anche quello di contestare al Pci l'egemonia culturale "riconquistando l'intellighenzia, le università e i media".

E così potrebbe anche concludersi il grande film del 1976 [...] C'è anche un nuovo segretario socialista, il quarantenne milanese Bettino Craxi. L'ambasciatore Millard, che ha l'occhio lungo, lo segnala subito come una luce in fondo al tunnel del caos italiano. Si stabilisce che una sua visita a Londra "sarebbe auspicabile". Arriva l'autunno e a Bruxelles, davanti a Kissinger, il Segretario di Stato britannico Crosland parla "warmly", con calore, del "Signor Craxi".


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