domenica 16 ottobre 2011

la ricetta del successo


Si era parlato di cambiare ricette e registri di contestazione. La giornata del “Global change” doveva essere anche questo, pur se imbrigliata in qualche modo all'uniforme di un'azione coordinata globalmente. Non era però una questione di far numero, lo scopo era veicolare il messaggio e risultare efficaci. La cosa a Roma non è riuscita per varie ragioni. Tra queste l'estrema facilità con cui un corteo può essere infiltrato da gruppi estranei violenti. Sono piccoli gruppi ma estremamente coordinati. A differenza della massa amorfa che è il corteo. I manifestanti che hanno tentato di isolarli hanno fallito perchè hanno agito singolarmente e senza una linea comune. Sostanzialmente non si trovavano lì per affrontare i blackbloc o chicazzosono; erano lì per sfilare. Tant'è che non mi posso non trovare d'accordo sul tweet che giunge da #egypt ad alaskaRP: “Ma perché in Italia fate i cortei invece di un gigantesco sit-in in una piazza?”. Di seguito un estratto da Diario di una rivolta tenace di Lorenzo Trombetta, per capire di che stiamo parlando.

«[...] Tenacia e organizzazione. Senza questi due ingredienti la mobilitazione egiziana non avrebbe avuto successo e i manifestanti non sarebbero riusciti a parare i colpi sferrati dal regime nel corso dei diciotto lunghi giorni di confronto. A partire dal 29 gennaio, subito dopo la presa di Tahrir, il regime aveva calato la carta delle bande di saccheggiatori e devastatori. In gergo locale baltagiyya (da balta, scure), erano poliziotti mascherati da balordi, poveracci assoldati come mercenari, criminali comuni fuggiti nei giorni dei disordini (secondo molti liberati e armati appositamente dagli stessi carcerieri). Per due giorni, queste squadracce avevano seminato il terrore nelle periferie a nord e nord-est del Cairo, ma anche nei quartieri più ricchi di Duqqi e Zamalik, assaltando centri commerciali, distruggendo auto in sosta, rapinando interi condomini armati di coltelli e bastoni. Gli abitanti della capitale si erano organizzati in ronde di quartiere con posti di blocco e turni di guardia all'ingresso dei sobborghi e delle abitazioni, mentre a Tahrir gli occupanti anti-regime cominciavano la loro autogestione. La mattina del 30 gennaio, esemplare è stata la scena a cui ho assistito mentre mi dirigevo al centro del maydan. All'imbocco occidentale della piazza, subito dopo il ponte di Qasr al-Nil, un cittadino-vigile, con in bocca il fischietto organizzava il traffico. Dietro di lui un manifestante sventolava senza posa la bandiera egiziana. Poco più in là una donna velata col niqab (che lascia scoperti solo gli occhi) teneva aperto un sacco dell'immondizia dove un altro manifestante riversava i detriti appena raccolti con una scopa presa da casa. All'ingresso di Tahrir uomini del servizio d'ordine controllavano l'identità di chiunque entrasse nel perimetro, chiedendo a ciascuno di esibire un documento di riconoscimento: “Non vogliamo poliziotti. Cercano di infiltrarsi tra i manifestanti e aizzare disordini”. Più in là, donne e ragazzi offrivano gratis datteri, biscotti e tè [...]»


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