lunedì 22 ottobre 2007

nazionalismi, minoranze e petroldollari

Tempi di guerra anche per stati senza nazione, Kurdistan nella fattispecie. Non è infatti chiaro quanto ancora a lungo le pressioni internazionali (vedi anche "usa-turchia: fine dell'idillio?") riusciranno a tenere a freno il progetto repressivo di Ankara e del suo stato maggiore dell'esercito. «E' tempo di agire» ha ribadito anche oggi Erdogan. Più chiaro di così...

Un'escalation di tensione che negli ultimi giorni ha archiviato: 1) l'approvazione del parlamento turco all'intervento militare dell'esercito nel kurdistan iracheno con 507 voti favorevoli e 17 contrari; 2) L'invito del governo iracheno al PKK a lasciare al più presto possibile appunto l'Iraq; 3) attacchi ad una serie di villaggi curdi e 49 morti al confine iraq-turchia; 4) semi-dichiarazione ufficiale di guerra di Erdogan:«In più occasioni abbiamo detto al presidente Bush quanto siamo sensibili su questa questione senza tuttavia ottenere alcun risultato positivo. Se un Paese vicino offre riparo al terrorismo, il diritto internazionale ci riconosce delle prerogative e per esercitarle non abbiamo bisogno di aspettare il permesso di nessuno».

Eppure niente di poi così nuovo sul vassoio. Lo fa presente Shorsh Surme a PeaceReporter, responsabile del portale d'informazione "Hetawi Kurdistan", meravigliato di tanta ed inattesa attenzione della stampa internazionale, una volta tanto. «E' una situazione preoccupante, ma non è una novità. Non è la prima volta che la Turchia attacca oltre confine e mi meraviglio che la stampa internazionale stia dando questo grande risalto alla vicenda. Come kurdo sono contento che si parli di una situazione molto pericolosa, ma è anche vero che dal 1992 la Turchia ha passato i confini con l'Iraq ben 48 volte. Dopo la caduta di Saddam le cose sono sicuramente cambiate, perché il Kurdistan iracheno è l'unica zona tranquilla di tutto il paese, ed è anche per questo che l'atteggiamento della Turchia non ci voleva. Anche perché il PKK esiste dalla metà degli anni Ottanta, e il governo kurdo dell'Iraq non può risolvere da solo il problema, che riguarda anche i confini con l'Iran. Le basi non sono certo nelle città kurde, ma in montagna, dove i guerriglieri si muovono in continuazione e sono imprendibili».


Il Kurdistan, riconosciuto nel trattato di Sevres (1920) e poi successivamente cancellato dalle mappe geografiche col trattato di Losanna (1923) proprio per la forte pressione ostracistica della nascente Repubblica turca, è una regione dislocata a cavallo tra Siria, Iraq, Iran e Turchia appunto, di 450.000 kmq. Quattro nazioni, quattro minoranze nei singoli contesti politici. A ben vedere, una situazione volutamente resa ingestibile nell'ipotesi di un eventuale ricostituzione dello stato kurdo. E non solo per la posizione che costituisce un passaggio obbligato, per esempio, tra le importanti repubbliche di Turchia e Iran, ma anche per le importanti risorse del territorio. Una tra tutte, il solito petrolio. Ma anche l'acqua, una risorsa che in queste regioni è di pari importanza, e di cui gli scontri israeliano-palestinesi per il controllo della cisgiordania (ed in particolare delle risorse idriche del Giordano) costituiscono un illuminante esempio. La Turchia in questo senso sta abilmente rovesciando il problema della questione kurda, strumentalizzando il PKK al fine di etichettare il tutto come un "problema di terrorismo", segno che qualcosa, dai loro amichetti americani, l'avranno pure imparata.

Intanto gli U.S.A., che in Iraq non sono certamente andati per avere un po' di acqua, vedono di malocchio l'interferenza turca nel nord dell'Iraq ed asseriscono: "Lo sconfinamento a Nord dell'Iraq potrebbe destabilizzare l'area". Detto da professionisti come loro, se ne può star ampiamente tranquilli.


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