martedì 8 gennaio 2008

turchia e libertà di parola

Lavori di negoziato ancora chiusi tra Turchia e UE. Questa volta, al vaglio dei commissari, il famigerato articolo 301 del codice penale vigente: reclusione fino a tre anni per chi offende l'identità e la storia del popolo turco (la "turchità"). L'UE ha posto nei scorsi mesi grande pressione al governo di Ankara affinchè cambiasse l'articolo 301, ritenuto, a ragione, una grave compromissione del diritto di parola e di espressione. I scarsi risultati però finora ottenuti hanno spinto Olli Rehn, delegato dell'Unione Europea, ad imporre l'ennesimo ultimatum ad Erdogan. E questo nonostante Mehmet Ali Sahin, ministro della giustizia, si sia affrettato a dire che il lavoro è quasi finito, oltre che pronto ad esser posto al giudizio del Parlamento entro la fine della settimana. Però guai a chiedergli che genere di modifiche si sia pensato di apportare: prima dev'essere discussa dalla riunione di Governo.

Con tutta probabilità si va verso una sostituzione del termine che esprime il reato, "insulto alla turchità", con una semi-equivalente accoppiata di termini: "offesa alla nazione", "offesa al popolo turco". Il che non fa che offrire nuova linfa a chi vuole l'amministrazione turca sotto scacco, o peggio, fortemente contigua, agli ambienti ultra-nazionalisti dei bozkurtlar, i "Lupi grigi". Le recenti prese di posizioni militariste in kurdistan, gli acerbi scontri diplomatici sulla questione del genocidio armeno, sono validi esempi del problema anzidetto. Panturchismo, xenofobia, parafascismo. Senza parlare dell'embargo nei confronti di Cipro-sud, una politica che la rende di diritto incompatibile a qualsiasi ipotesi di adesione all'Unione Europea.

Dozzine di giornalisti e scrittori in questi anni sono stati giudicati colpevoli davanti alla legge per questioni di "turchità". Tra i più celebri Orhan Pamuk, scrittore turco contemporaneo, premio Nobel alla letteratura (motivazione: «nel ricercare l'anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture»). Pamuk, come la gran parte degli incriminati a questo genere di reato, è stato processato per aver ammesso, nel corso di una dichiarazione rilasciata ad una rivista svizzera, il massacro da parte dei turchi di un milione di armeni e trentamila curdi in Anatolia durante la Prima guerra mondiale. Non l'avesse mai fatto! Un sottoprefetto di Isparta, con vero senso di "turchità", è giunto al punto di ordinare la distruzione dei suoi romanzi nelle librerie e nelle biblioteche; una TV locale invece proponeva di ritrovare una studentessa che aveva ammesso di possederne uno. Robe da disturbati mentali.

C'è da dire che Pamuk è in buona compagnia. Follie di ordinario patriottismo-tigre (come le zanzare) si consumano con molta più frequenza di quanto non trapeli. Per esempio, (lo dico per fonti più o meno dirette), pare che le guide turistiche dentro la Basilica di Santa Sofia ad Instanbul si comportino da automi pappagalli: «Guardate che bello! Proprio bello! Guardate che bello! Proprio bello!»; almeno, da quando uno di loro è stato incarcerato per offesa alla "turchità": si era permesso, guidando un tour, di criticare la manutenzione delle opere. E dunque si sono prese le contromisure: ora i commenti "fuoriposto" vengono fatti all'esterno della chiesa, lontano da occhi indiscreti. Michael Dickinson invece, un artista inglese che vive e lavora in Turchia da almeno vent'anni, è stato bloccato dalla polizia qualche tempo fa per aver mostrato un poster che ritraeva il volto del premier Erdogan su un corpo di cane, attaccato per il collo ad un guinzaglio a stelle e strisce.


Decisamente, un genio venuto dal Nord. Peccato che in Turchia si abbia scarso senso dell'umorismo. Ma solo per dirla con gentilezza. «Prego, il carcere è da questa parte»...

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3 commenti:

Anonimo ha detto...

Lo sciovinismo nazionalista ha rappresentanto a lungo una notevole ipoteca sull'identitò turca; il ruolo preponderante dell'esercito nelle vicende politiche, del resto, ha spesso rappresentato una parte integrante di questo sentimento.

Credo sia una questione assai spinosa. Per certi versi, sarebbe un po' come chiedere all'Italia di "allentare" la propria "cattolicità" - che, vera o presunta che sia, rappresenta tradizionalmente una forma di atavico collante identitario.
Il percorso è molto lungo, e non potrà andare avanti a colpi di decreti ed ultimatum europeisti, anche considerando il clima politico della regione turcofona. Una partita aperta, insomma!
Pace.

m lombardi ha detto...

Bella riflessione Abdel.

Ritengo lo spettro dell'esercito un limite istituzionale. Che venga volentieri sguinzagliato è la prova tangibile di questa "paura" (o contiguità). Non sono un esperto di storia turca, pertanto potrò non avere elementi a sufficienza. Ma per esempio i tre colpi di stato militari del 1960, 1971, 1980 rappresentano qualcosa di abbagliante.

Per me al giorno d'oggi vale il principio che sia la gerarchia a proiettare costumi e sentimenti. L'italia è sorta come un insieme di mondi diversi: la religione rappresentava l'unico fattore su cui fondare un'identità nazionale. Ed infatti se ne è fatto gioco-forza anche in epoche e contesti diversi. Il fascismo era fortemente cattolico. Il secondo dopoguerra ha conosciuto l'egemonia della Democrazia Cristiana. Ma ora sfido chiunque a dimostrare che l'italiano si identifichi come tale per mezzo della cattolicità. Certo poi ci saranno i soliti gerarchi che tenteranno di plasmare (ora con più successo, ora con meno) il popolo, in modo che lo si possa governare più facilmente: bisogna renderlo malleabile. A sentir parlare Borghezio o Buttiglione tutti gli italiani si riconoscono nella cristianità. Può anche darsi che riescano a convincere più di qualcuno circa la bontà dell'equazione. Ma quello che voglio dire è la cristianità non è avvertita come qualcosa di così assolutamente imprescindibile.

Né il passato può aspirare ad aver un peso genetico così rilevante in noi.

L'identità turca fondata sul militarismo nazionale potrà essere stata la carta giocata da Kemal-Ataturk per stringere attorno a sé un popolo in un momento di "risorgimento". Ma questo sentimento può ritenersi ancora così attuale nel XXI, o piuttosto è un prodotto culturale proiettato dall'oligarchia alle classi sottostanti per mantenere quello che storicamente è stato, e vorrebbe continuasse ad essere, il suo potere?

Ciao!

Anonimo ha detto...

A parte le disquisizioni politche, confermo: i Turchi hanno proprio poco senso dell'umorismo.

PS: appena ho un minuto, rispondo alle interessanti domande che hai posto.