lunedì 6 aprile 2009

middle east: esiste un dopo Iraq?



L'accordo di fine anno, il SOFA, mette nero su bianco le date del ritiro americano in Iraq, e ciò che ci girerà attorno. Questo Status of Forces Agreement è una delle prove più tangibili del fallimento totale della campagna militare lanciata nel 2001 da G.W.Bush. Non per il ritiro delle truppe, sia chiaro, ma per la risoluzione ufficiale del conflitto. Che sembra suggerire un ribaltamento di potere tra chi dovrebbe aver vinto la guerra a dispetto dell'altro (situazione in cui vengono imposte le condizioni del vincitore). Come a dire che, fa notare Fabio Mini in "Uno scomodo Sofa", «visto che il regime di Saddam non c'è più, l'Iraq vuole lo stesso trattamento di cui godeva quando c'era "lui": pretesa legittima anche se imbarazzante nel riferimento». Gli articoli dell'accordo rispecchiano questo leit-motiv, alcuni di questi scritti con toni addirittura perentori o da intimidazione incondizionata. Un documento contenente richieste che sarebbero dovute essere definite, nella forma e nella sostanza, come irricevibili da parte della diplomazia del vincitore.

Prendiamo l'articolo 24, riguarda la forma: «All U.S. forces are to withdraw from all Iraqi territory, water and airspace no later than the 31st of December of 2011. All U.S. combat forces are to withdraw from Iraqi cities, villages, and towns not later than the date that Iraqi forces assume complete responsibility of security in any Iraqi province. The withdrawal of U.S. forces from the above-mentioned places is on a date no later than the 30 June 2009. The United States admits to the sovereign right of the Iraqi government to demand the departure of the U.S. forces from Iraq at anytime. The Iraqi government admits to the sovereign right of the United States to withdraw U.S. forces from Iraq at anytime». Il tono di incondizionalità è sancito con un bel "gong" per mezzo delle due date. Che azzerano la possibilità di cambiamenti in corso. E ciò nonostante le ipotesi di deterrenza delle minacce alla sicurezza irachena (art. 27) che però "vengono riferite esclusivamente alla sopravvivenza politica dell'attuale regime". Si aggiungono infine le ultime due gemme: gli Stati Uniti possono decidere di andarsene in qualsiasi momento oppure, riconoscendo il diritto sovrano dell'Iraq, farsi cacciare via anche domani, se nelle intenzioni di Baghdad. L'articolo 26 è invece un esempio di richieste sostanziali: «In order to enable Iraq to continue developing its national economy by rehabilitating the Iraqi economic infrastructures and also to provide the basic vital services for the Iraqi people and to continue to preserve Iraqi resources such as petroleum, gas and other resources and also to preserve its financial and economic assets abroad, including the Development Fund of Iraq, the United States of America guarantees its best effort in order to: - Support Iraq to cancel its international debts that resulted from the policy of the former regime; - Support Iraq to reach a final and comprehensive decision regarding the demands of compensation that Iraq inherited from the former regime that have not been resolved yet, including the demands of compensation that was imposed on Iraq by the International Security Council».

Il SOFA, ora che il mandato ONU è scaduto e non rinnovato, è l'unico punto di riferimento. Eluderlo, significherebbe violare il diritto internazionale, o comunque, giocare sporco. Ma parecchio sporco. Resta allora da chiarire perchè il SOFA è stato scritto così come è stato scritto. La risposta è tutta qui: l'Iraq si è reso fin troppo bene conto della situazione balbettante degli Stati Uniti, contingente e non. Ed è riuscito a prendere il coltello dalla parte del manico: farsi delegare nei compiti interni e farsi rafforzare il governo centrale, «tendendo la trappola dell'inaffidabilità e dell'inadempienza dei forti», consci del fatto di essere un argomento da spendere nel dibattito interno agli Stati Uniti. Un ricattino efficace, in fondo, interessi economici messi al sicuro, Washington non ha più motivi per occuparsi dell'Iraq. Perchè mai continuare ad assumersi la responsabilità, o rischiare di contare altri morti? La "democrazia" è già stata esportata. Tanto più che i modelli di occupazione di derivazione "seconda guerra mondiale" non sono più applicabili nel bel mezzo di un'insurrezione armata. Non si può pensare di dividere per controllare, quando il problema è l'opposto: gli interlocutori sono già molteplici, la rete del potere informale (diwan) vasta: si pensi al ruolo delle tribù sparse nel territorio, che si sostituiscono ai poteri istituzionali. Persino a cavallo dei confini, luoghi in cui il potere centrale dovrebbe avere tutto l'interesse di vigilare e rimarcare aggressivamente come "suoi", anche in virtù della funzione simbolica che assumono.

I contingenti militari americani confluiranno pertanto in Afghanistan. E questo mi porta al secondo punto. Come può essere conciliabile il fallimento iracheno, cui ha certamente contribuito la vecchia amministrazione Bush nella decisione di coprire le «inadeguatezze politiche e militari», stando sempre a Fabio Mini, «facendo finta che si potesse risolvere il problema con qualche migliaio di soldati in più», con il nuovo rimpolpamento che si prospetta per l'Afghanistan? Vedasi adunata generale di Obama: «L'Europa non si può aspettare che gli Stati Uniti sostengano da soli peso militare in Afghanistan perché siamo lì per affrontare un problema comune». Il pretesto è fornito dalla "turbolenta" regione di frontiera con il Pakistan. Sembra la riapplicazione del modello morto e sepolto giusto ieri in Iraq. Sfidare sul proprio terreno gruppi di potere locale, rischiare una guerriglia non controllabile, e magari bollare il tutto al nome "al-Qaeda". Ma come, giusto 17 giorni fa hai mandato bacini a Tehran (messaggio nel giorno di "Nowruz": «just one part of your great and celebrated culture») lanciando, di fatto, un negoziato diplomatico che aspetta solo le elezioni di giugno per entrare nel vivo, e ora ritorni massicciamente in Afghanistan? Pur sapendo che le perdite del 2008 sono aumentate del 21% rispetto a quelle dell'anno precedente. Pur avendo dall'Iraq così tanto da imparare. Pur consci della necessità di una nuova politica per il medio oriente: vedasi appunto little o grand bargain con l'Iran.

E' una politica estera che continua ad essere molto ambigua. L'unico punto che appare chiaro è come non esista una linea guida comune, e che si proceda per scelte diversificate, caso per caso. E' possibile che il "paradosso del vincitore" vistosi in Iraq possa aver indotto gli Stati Uniti ad una scelta più aggressiva ed energica per l'Afghanistan, in modo da avere più peso diplomatico al momento giusto. Ossia senza uscire gradualmente dagli affari di ordine interno prima dell'atto conclusivo (maggiore ricattabilità?). Tuttavia questo scenario potrebbe destabilizzare ulteriormente una regione in cui il livello di caos è già alle soglie di guardia. Inoltre, in prospettiva, potrebbe logorare la credibilità degli USA esattamente come accaduto in Iraq. Questa serie di ragioni fa pensare che la scelta di rafforzare numericamente i contingenti sottenda logiche estranee, di per sé, al controllo della tribulata regione afghano-pakistana. A meno che non si voglia adottare il punto di vista neocon, non solo come pretesto, per cui Al-Qaeda è il male di questo mondo, e, in quanto tale, vada debellato militarmente parlando. Aggiungendo, peraltro, un altro significativo tassello alla sua mitizzazione nonché rafforzamento: leggi alla voce "cos'era al-Qaeda prima dell'11 settembre".

Più verosimilmente, nelle dichiarazioni di Obama credo vadano lette almeno tre intenzioni. La prima è quella di rafforzare il presidio medio-orientale nell'unico posto dove questo è ancora possibile e di libero arbitrio per gli USA. In parte alimentato dal necessario turn-over che si prospetta in seguito al SOFA, o graduale sgombero dall'Iraq, in parte dettato dall'esigenza vecchio-stile di ricordare a tutti che gli Stati Uniti sono ancora "affidabili". Che richiama tristemente il ruolo giocato negli ultimi anni dall'improbabile attore internazionale Italia: non importa il come, il quando, e neppure il cosa; l'importante è esserci. Il secondo motivo potrebbe avere a che fare con gli equilibri internazionali messi in discussione da Russia (vedasi Olsezia) e altri paesi emergenti, tra cui soggetti sovranazionali per ora minori come l'ASEAN, ma in rapida ascesa, specie in seguito alle recenti (2003, 2004) adesioni di Giappone, Cina, India e Pakistan ai "Trattati di Amicizia e Cooperazione": vale la pena ricordare l'invito al G20 di qualche giorno fa anche a Abhisit Vejjajiva, premier thailandese e presidente di turno dell'Asean. In questa prospettiva è possibile leggere l'adunata generale di Obama per l'Afghanistan come un tentativo di riproporre al mondo un'immagine compatta di NATO, ma, più reconditamente, ancora una volta di sé stessi. Poiché come è chiaro, per usare una litote, non sono gli Stati Uniti ad essere l'appendice della NATO. Infine, per non dimenticarsene, il presidio in Afghanistan rassicura Israele (anche se è tutt'altro che circondato) e al contempo costituisce l'elemento di pressione in caso di eventuale little bargain con l'Iran, cioè nel caso in cui si dialoghi con Tehran senza escludere la possibilità di intervento manu militari. In ogni caso, attorno a questo punto, si avrà maggior chiarezza dopo le elezioni di giugno, il cui esito viene dato molto incerto.

Occorre dunque chiedersi seriamente se esista un dopo-Iraq. Interloquire con l'Iran rappresentava una scelta obbligata, rafforzare l'occupazione in Afghanistan no. O quantomeno non strettamente. Penso, in chiave interpretativa, che ci sia bisogno di uscire dall'equivoco che la politica estera americana sia ambivalente. Certo un'amministrazione democratica è solitamente più attenta a questioni minime di forma: Bush era il tipo di presidente che non doveva rendere conto a nessuno di quel che faceva, e se sì, come si è visto, si avvaleva di prove costruite ad hoc. Pertanto una scelta di rottura rispetto all'amministrazione precedente sarebbe dovuta essere compiuta proprio a proposito di Afghanistan. Inutile ripararsi dietro all'improbabilmente deontologico cambio di approccio in Iran. Perchè così, il dopo-Iraq è solo un Iraq-2. Anche se gli strumenti politico-diplomatici sono quello che sono, e sporcano pure tutto quel che toccano, a quest'inerzia terribile Mr Obama ci dovrebbe forse pensare un po' più attentamente. Can you?



Technorati technorati tags: , , , , ,


1 commento:

Enly ha detto...

Solidarietà al popolo palestinese e libanese contro gli oppressori israeliani e anche contro quei benemeriti idioti tra cui Obamino.